L'ombra di colui - Parte 3

Eccomi giunto alla terza e ultima parte della lunga ma (spero) interessante  disamina, dove riporto quale possa essere l'identità di questo misterioso personaggio. La figura che meglio sembra adattarsi alla descrizione presentata è quella di Ponzio Pilato. Tale lettura fu proposta per la prima volta da E. Bambarani (Due chiose dantesche, Verona 1897), ripresa poi anche dal Pascoli. Vediamo se le considerazioni fin qui esposte si adattano a questa figura storica: prefetto in Galilea per un decennio durante il regno di TIberio, è famoso perchè fu giudice nel processo a Gesù, durante il quale si rifiutò di condannarlo (sappiamo che in seguito se ne lavò le mani), cedendo poi di fatto alle richieste dei sadducei che ne chiedevano al crocifissione. Impedire e sedare rivolte o tumulti era una sua responsabilità; ciò che fece quando si vide chiamato a giudicare il Cristo fu un valido esempio di come abbia fino all'ultimo cercato di evitare problemi molto più gravi. In Gesù, riconobbe ...

Pape satàn, pape satàn aleppe

 I demoni che si rivolgo a Dante lo fanno quasi sempre con un linguaggi comprensibile agli esseri umani, a chi è in vita o a chi lo è stato in passato: Caronte, Minosse, Malacoda, etc. Fanno eccezione due personaggi: Pluto e Nembrot, i quali rivolgono a Dante parole apparentemente incomprensibili.

Si può però supporre che il senso generale delle loro espressioni sia o di stupore, per la presenza di un vivo nel regno dei morti, o di minaccia. Inoltre, viene facile pensare che Dante non abbia, per così dire, inventato di sana pianta i termini, ma li abbia ricavati da lingue esistenti per poi deformarli a suo piacimento, per lasciar intendere come quei due personaggi distorcessero idiomi comprensibili, spinti dalla perversione che li caratterizza. Nel primo caso, quello di Pluto, l'espressione è quasi certamente di rabbia, se Virgilio lo apostrofa poi dicendo: "Consuma dentro te con la tua rabbia", e di lotta, se dopo le parole del savio, esso si accascia lasciando forse intendere che si fosse levato per lottare, appunto.

Quale lingua può aver usato Dante, da modificare e alterare, affinché ne traesse un idioma di per sé incomprensibile? Di certo è da escludere l'ebraico (lingua della grazia); o la lingua di Adamo (consegnata al genere umano direttamente da Dio e dunque troppo pura da essere messa in bocca a una creatura infernale). Per far parlare un demone, e non uno qualsiasi, ma Pluto, "il gran nimico", sarebbe stato opportuno ricorrere a una delle lingue del peccato, che si erano generate a seguito della caduta della Torre di Babele, e tale idioma, considerata tutta la cultura legata a Plutone e al mito in generale, non poteva che essere il greco. Non il greco contemporaneo a Dante, né quello della letteratura, ma un greco imbarbarito, corrotto fin dalle origini e che quasi più nulla poteva avere di intellegibile. L'unica cosa che poteva ancora conservare, in comune con la lingua greca ancora nota, era costituita dalle radici.

Partiamo dal termine ALEPPE. Se Pluto si prepara alla lotta, ha bisogno di forza, di qualcuno che gli dia coraggio e questo, per il lottatori, equivaleva all'essere unti. Il termine greco è άλείφείν, la cui radice è λείν, o άλείν, che Dante può aver assunto e che può aver riconosciuto nel termine άλείπτηξ, a cui corrisponde in latino aliptes: ungere. Sempre in termini di radici, Dante deve aver ridotto l'imperativo άλείφε, o άλείπε, traslitterato in aleppe, ovvero "Satana, dammi forza!"

Resta PAPE, che crediamo sia semplicemente un vocativo di παπποξ, latino papus, ovvero "avo", "antico padre". Da qui, il vocativo diviene παπε, da cui ancora pape, molto conveniente al grido di Pluto e delle circostanze descritte. Esso sta dunque invocando in Satana l'antico padre perché gli dia forza. In questo modo, il grido di Pluto suona nella lingua corrente come:

PADRE SATANA, PADRE SATANA, AIUTO!

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